E' il dolore per la mancanza di chi non c'è più, che si alimenta per il solo fatto di esistere e che se pur in stato soporoso, esso vigila in attesa di un momento di debolezza di colui o colei che seco lo portano. Basta nulla a provocarlo, un gesto, uno sguardo, una parola, un pensiero distratto, un riflesso di luce, un suono, un semplice silenzio, nel secolare quotidiano che rintocca la vita.
E' amaro quel dolore, tanto amaro da doverlo deglutire più volte, e per deglutirlo è necessario uno sforzo sovrumano. E' un dolore egoistico, ne sono consapevole, che vive in compagnia dell'altrettanto egoistico desiderio di riavere indietro coloro che ci hanno lasciato, un desiderio cieco e solo proiettato al soddisfacimento personale. Per noi che siamo restati, si tratta, qualunque sia stata la modalità che ci ha strappato le persone a noi care, di una privazione che ci è stata imposta anzitempo, e forse lo è.
Tutti noi abbiamo un tempo che ci è stato concesso, più o meno lungo, allo scadere del quale Atropo taglia il filo che ci tiene in vita, come ha fatto con coloro di cui ci ha privati, e noi che restiamo dobbiamo inevitabilmente convivere con il vuoto che ci è stato imposto. Errano coloro che sostengono che il tempo lenisce il dolore, non c'è lenimento alcuno, ci si convive cercando di tenerlo seppellito perchè la disperazione non abbia il sopravvento.
Per lenire i miei di dolori ho cercato un'alternativa non egoistica, una spiegazione che potesse in qualche modo avere la parvenza di una pseudo giustificazione. Ho pensato a chi ha lasciato dentro di me un vuoto largo quanto l'abisso, al loro modo di essere, al loro carattere, a tutti gli aspetti che hanno caratterizzato la loro vita e il loro rapporto con me e sono giunta alla conclusione che Atropo quel filo l'ha tagliato affichè loro non fossero destinati a vedere lo squallido sfacelo che è seguito alla loro dipartita. Non consola, ma ha una sua triste logica.
Mi hai frugato nell'anima.
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