Simply

venerdì 22 novembre 2013

CIECA

 









Cieca,
senza il tuo viso,
gli occhi tuoi rassicuranti,
sorriso che illumina i miei giorni.
Cieca,
un nero velo fra i nostri volti,
solo la tua voce,
che morbida vibra dentro di me,
e parla all'anima impaurita.
Cieca,
senza vederti,
senza toccarti,
sfiorata dal tocco del tuo leggero spirto.
Si scolori il manto nero all'alba,
giorno nuovo,
sciolta la rete delle ciglia
sarà scoprirsi ancora,
riflessi noi
nelle nere iridi,
laghi neri,
opali iridescenti,
sigillo del rinnovato amore.

domenica 17 novembre 2013

MONNA VANNA DETTA GINA


Monna Vanna, detta Gina, era la mia professoressa di greco e latino ai tempi del liceo. Donna tutta d'un pezzo, di grande sapere e altrettanta disciplina. Severa, anzi severissima, era il terrore di tutti gli studenti. Il suo passo risuonava per i corridoi, come fosse quello del boia che stava andando a giustiziare il condannato, quando entrava in classe, la salivazione di noi ragazzi si azzerava totalmente, e una strana sensazione si impadroniva dei nostri corpi. Era la paura. Molti di voi si domanderanno: il terrore era legato alla coscienza sporca di chi non aveva studiato? No, era semplicemente legato a lei.
Potevi aver studiato di tutto e di più, ma lei incuteva comunque terrore, e sapete perchè? Perchè era in grado di parlare il greco antico come parlava italiano, la sua lingua madre.
Traduceva qualunque cosa, anche un solo verbo buttato lì, aveva una memoria incredibile, ed era in grado di recitare in greco antico Iliade, Odissea e lirici greci in metrica.
Ora, di fronte ad una donna così, ma che dico donna, forse essere di un altro mondo,  proveniente direttamente dal V secolo avanti Cristo, voi come vi sentireste? 
I suoi medoti erano semplici, ma avevano pur sempre il sapore delle torture della Santa Inquisizione spagnola. Lei, a differenza degli altri professori, interrogava a spron battuto tutti i giorni, e la cerimonia pre interrogazione era un lento stillicidio di sofferenza per noi alunni.
Apriva il registro, nel silenzio sepolcrale che lei stessa aveva creato entrando in aula, si sentivano solamente il fruscio delle pagine e il lieve colpetto di tosse con cui si schiariva la voce. Prendeva la sua penna personalizzata, alzava la testa per scrutare tutti noi, che, statue di cera, la fissavamo in trance, con il sangue che pulsava nelle tempie e il cuore in gola.
Poi con grande concentrazione cominciava a scorrere i nostri nomi dall'alto al basso e dal basso in alto, aiutandosi con la penna: non si sapeva mai per quanto tempo lo facesse, era imprevedibile. 
Durante quegli interminabili minuti nelle nostre teste si sentiva solo il suono di un pendolo, sì quello che scandiva le ultime ore di un condannato a morte. DON, DON, DON.......
Poi con un gesto fulmineo come l'attaco di un cobra dagli occhiali, la punta della penna cadeva su un nome e lei lo pronunciava. Il chiamato al sacrificio si alzava, senza alcun controllo su se stesso, mentre gli altri, madidi di sudore freddo, appoggiavano la fronte sul banco per qualche secondo, poi iniziava l'interrogazione. Stessa cosa accadeva il giorno del compito in classe, greco o latino che fosse. Lei arrivava con il suo incedere, la fotocopia della versione per noi tutti in mano. Spostava sapientemente i banchi, distanziandoli, in modo tale che fosse impossibile la comunicazione verbale e non, distribuiva la versione, e poi la leggeva. Era il momento topico, bisognava stare ben attenti all'inflessione della voce, dove faceva una pausa, lì bisognava mettere una virgola o fare un segno, poteva essere la svolta per capire il senso della versione. Poi il nulla per due ore, tranne qualche sospiro disperato, e il rumore delle pagine del vecchio Rocci o del Badellino-Calonghi che scorrevano fra le nostre dita. Al termine delle due ore, sui nostri volti i segni di quella tremenda pugna, e le relative conferenze che ne scaturivano.
Poi iniziava l'attesa, sì, quella del giorno in cui avrebbe riportato i compiti corretti. Erano giorni in cui l'Inferno si materializzava sulla terra, i peggiori dubbi tormentavano le nostre anime, ma ormai ciò che era stato fatto non si poteva cambiare. Quando entrava con i fogli protocollo sotto il braccio, molti chiedevano il permesso di andare in bagno, e ho detto tutto. Ma quell'amaro calice non poteva esser allontanato, Monna Vanna consegnava sempre a me il fascio dei fogli protocollo e a me toccava consegnare i compiti corretti, sistemati in ordine crescente, quindi dal voto più basso a quello più alto. Sono passati ventidue anni, e ancora oggi, nei periodi in cui sono maggiormente sottoposta a stress, ricevo le visite di Monna Vanna, detta Gina, nei miei sogni, con la penna in una mano e i compiti nell'altra. Eppure dopo tutti questi anni, di fronte ad un testo greco o latino, sono ancora in grado di tradurre.

sabato 16 novembre 2013

LA DANZA DELLA MORTE














La Morte mi sfida,
la sua sfida è la vita,
vita,
arena in cui io e Morte duelliamo.
Mi muovo,
perchè essa incalza,
segna il tempo delle  azioni,
dei sentimenti.
Implacabile spinge,
al mio cedere vince,
al mio combattere arretra.
La sua falce prova ad affondare,
sulla fenditura del mio bozzolo.
E io danzo con Lei,
la danza del guerriero.





giovedì 14 novembre 2013

L'OCCHIO TIMIDO











A guardarti
timido l'occhio si affacciò.
Si soffermò sopra di te
rapito,
su aspri spigoli,
su morbidi contorni.
Della luce che emanavi
s'innamorò,
lasciandosi cullare dai tuoi raggi.
A quell'iride curiosa
ti donasti,
e furono nuovi
mondi.

mercoledì 13 novembre 2013

LA TAC

TAC
 Oggi chissà perchè, mi è tornato in mente un episodio di cui sono stata protagonista qualche anno fa,  quando fui costretta a farmi una TAC, esame necessario in vista di un intervento chirurgico al ginocchio. Mi  recai presso la struttura ospedaliera di competenza, munita di richiesta del medico curante. Allo sportello per il pagamento del ticket si assiepava un numero imprecisato di persone, che però erano lì solo per il prelievo del sangue e quindi munite di numero, mentre tutti coloro (quindi io e qualche altra persona) che invece dovevamo sottoporci ad esami diversi, fummo dirottati presso lo sportello vicino, per il quale non era necessario munirsi di numero, il che  suscitò qualche polemica su chi c'era prima e chi doveva esser dopo. 
Sulla mia richiesta, la dottoressa aveva inserito il codice relativo all'urgenza  e che pensavo mi evitasse di compilare il modulo in cartaceo, invece no, tanto per perder tempo fui costretta  a ricompilarlo comunque. 
Con l'occhio all'orologio, mi diressi presso il reparto nel quale fare l'esame, consegnai la documentazione all'infermiera e feci per mettermi seduta in attesa del mio turno, ma la generalessa mi richiamò all'ordine dicendomi che dovevo passare dall'accettazione. Ritornai indietro, feci zoppicando due rampe di scale, mi recai presso il reparto di Radiologia, dove una indisponente ed annoiata infermiera mi fece compilare l'ennesimo modulo relativo alla privacy.......
Ritornai di nuovo giù e riconsegnai tutto alla generalessa, che nel frattempo aveva chiamato il marito per dargli indicazioni su come vestire la figlia (poi si dice la fortuna dei posti pubblici), il che  significò aspettare il termine della sua telefonata. Finalmente mi misi in pace ad aspettare, ma avevamo già sforato l'orario di almeno venti minuti, perchè? Voci di corridoio mi giunsero all'orecchio, aspettavano un interno che doveva fare la TAC, ma che non arrivava (informarsi?). La generalessa chiamò il reparto, e dopo un quarto d'ora di conferenza, chiarì a se stessa che il malato non arrivava, perciò potei passare io.
Il medico mi chiamò e mentre preparava sommariamente il lettino su cui dovevo sdraiarmi, parlava al telefono con un collega, ma per ottimizzare i tempi mi rivolse alcune domande: " Quale gamba le fa male?" mi chiese, e io prontamente: "La sinistra". "Non ha fatto terapie? Non ha preso farmaci antinfiammatori, antidolorifici?" 
"Ma certo, ho fatto di tutto, ma ormai non c'è più nulla che mi faccia effetto" spiegai tranquillamente. Intanto lui era preso dalla sua conversazione al telefono, mentre io non sapevo se dovevo mettermi sul lettino, o se  aspettare; nella stanza c'era un freddo "babbione", perchè la macchina doveva rimanere ad una certa temperatura altrimenti sarebbe andata in tilt, cosa per altro che non avrebbe evitato che mi venisse una bronchite.
Finalmente il medico finì di conversare al telefono, e mi si rivolse nuovamente: "Allora veniamo a noi, quale gamba le fa male?" 
Lo guardai attonita: "Le ho appena finito di dire che la gamba che mi fa male è la sinistra" e lui di rimando "Ma non ha fatto terapie farmacologiche o fisioterapiche?".
Non riuscivo a credere alle mi orecchie, ma c'era o ci faceva? Ripetei la solita cantilena e lui sembrò comprendere, quindi mi fece sistemare ed entrò nella stanza dei bottoni. Da quella stessa stanza uscì una collega (lo supposi io), mi si avvicinò sorridente, pensai che volesse controllare che tutto fosse a posto, e invece? Mi fece le stesse domande del medico! Ma dove ero capitata, nell'ospedale di Playmobil? Ma che si erano drogati di primo mattino?
Per l'ennesima volta risposi, sperando che in quelle zucche vuote risuonasse chiara la mia risposta e poi, alla fine, demmo inizio alla TAC.
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