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mercoledì 6 gennaio 2016

Riflessione post Capodanno

Ed è passato anche il Capodanno, e milioni di persone guidate dalla mania collettiva dei festeggiamenti si sono riversate nelle piazze, nei locali, nelle discoteche, in nome di una frenesia improntata al divertimento per forza. Guidata dalla mia secolare introversione mi chiedo cosa vada a cercare la gente in questo stordirsi al freddo, sotto la pioggia o la neve, stipati gli uni accanto agli altri, immersi nei frastuoni prodotti dalla musica ad alto volume, le voci, le urla che si mescolano insieme in uno stonato mix stridente.


Come sempre si contano gli incidenti dovuti agli incauti usi di giochi pirotecnici mal gestiti o acquistati nel posto sbagliato, o fatti in casa, danni vari per vandalismo di ubriachi festeggiatori che si sono aggirati insieme al gelo nelle strade delle città, qualche rissa scoppiata a causa di troppa eccitazione degli animi e potrei continuare. Io confermo la mia controtendenza ai soliti e triti costumi della società, imposti da convenzioni accettate senza nemmeno porsi una domanda: cerco la pace e il silenzio e in pace e silenzio me ne sono stata, lasciando che i rumori di questa notte si perdessero lontano dalla mia stanza.

Sono una che rimane volentieri con se stessa, al contrario di chi invece ama far gruppo e chiasso forse perchè star soli con se stessi li induce ad ascoltare un vuoto che non riescono a colmare, perchè il valore predominante continua ad essere un mero materialismo che non lascia spazio a pensieri diversi da ciò che ha un prezzo. Mi chiedo poi cosa ci sia da festeggiare, credo che il nuovo anno dovrebbe essere accolto in altro modo, in particolare questo. Non mi pare che vi siano grandi cose a cui brindare se non alla speranza che questo 2016 possa essere foriero di cambiamenti concreti.

Sinceramente è questo che mi sono soffermata a pensare nella mia pace e nel mio silenzio, questa scorsa notte, accompagnata da una fetta del panettone che ho fatto e da un calice di spumante, fra le mura di una casa che posso definire tale perchè piena dell'amore della mia famiglia a cui devo quello che sono e che ringrazio ancora per avermi dato i valori che alimentano la mia esistenza e il mio pensiero scevro da ogni consumistica dipendenza.

domenica 20 dicembre 2015

Bischero

BISCHERO: è il più familiare insulto fiorentino, ed è anche la parola che ricorre più frequentemente per le strade di Firenze. Bìschero è l'ABC del vernacolo: la prima parola dei neonati invece di "mamma"; il primo essenziale insulto che i turisti devono imparare. Può essere un'offesa cocente e un'espressione affettuosa ("Viam un fare i' bischero!"; "o bischeraccio!"), tutto dipende dal contesto e dal tono di chi lo dice. Ogni fiorentino, bambini compresi, almeno una volta al giorno "dà dì bischero" a qualcuno, magari a se stesso: se tutti si mettessero d'accordo e dicessero il loro BISCHERO quotidiano in coro, contemporaneamente, sarebbe un boato impressionante.

I dizionari italiani spiegano che i bìscheri sono quei piroli o legnetti sagomati che reggono le corde del violino e della chitarra e servono per l'accordatura; per un fiorentino e per un toscano, bìscheri sono gli ingenui , i grulli, gli sciocchi. L'etimo è incerto: in genere si cita l'antica e illustre famiglia fiorentina dei Bìscheri, all'angolo dell'atuale Via dell'Oriòlo. Ma veramente nulla prova che qualcuno della famiglie Bìscheri si sia distinto per qualche clamorosa e storica bischerata; anzi, sotto questo sfortunato nome gli annali della Repubblica fiorentina registrano quattro Gonfalonieri e quindici Priori.

Presso il campanile di Giotto esiste addirittura una iscrizione  che ricorda il sepolcro di Lotto Bìscheri. Come se non bastasse l'insulto, BISCHERO è sinonimo di membro virile. E si capisce come i moderni dicìscendenti di quella povera famiglia abbiano fatto di tutto per cambiare almeno l'accento del loro cognome, in Bischèri. Però nessuno, nominandoli, ha mai potuto rinunciare al risolino maligno.

A Pontasserchio, in provincia di Pisa, il 28 Aprile si svolge la Festa del Crocifisso, meglio conosciuta come Fiera 'o' Bìscheri, fiera con i bìscheri. Nulla di blasfemo, comunque: è solo che per l'occasione c'è l'usanza di mangiare un dolce che si chiama, appunto, torta co' bìscheri. In questo caso i BISCHERI sono cannelli di pasta dolce disposti giro-giro a zig-zag. Data la curiosità del nome, ecco appagata anche la curiosità del sapore:

Ricetta per una torta co' bìscheri:

"Fare una pastafrolla con treetti di farina, un etto di zucchero, mezz'etto di burro, due rossi d'uovo, due cucchiai di marsala e farla riposare al fresco per tre ore avvolta inun panno. IL ripieno si confeziona con un etto di riso bollito nel latte con un po' di sale, un etto di canditi e altrettanto dicioccolata, mezz'etto d'uvetta, altrettanto di pinoli, un etto di zucchero, due uova intere e due chiare montate, noce moscata, un po' di liquore. Si stende la pastafrolla nella teglia in modo che i margini stiano rialzati e vi si versa l'impasto. I b'scheri si fanno ritagliando la pasta torno-torno e arricciandola. Poi, in forno"

sabato 20 giugno 2015

Charlie e famiglia, parte prima | Scene dal precariato lavorativo

Pur essendo praticamente onnipotente, Charlie aveva una spina nel fianco, quello che potremmo definire il suo tallone d'Achille: la sua famiglia.
Charlie aveva una splendida consorte, e quattro figli, due maschi e due femmine.

Erano tutti grandi e quasi proiettati nel mondo del lavoro, ma  avendo immense possibilità economiche, si trastullavano in attività alternative dando dei sani grattacapi a Charlie, che spesso, investiva con la sua voce la cornetta del telefono, inveendo brutalmente contro consorte e figli medesimi.

Specialmente lo Smilzo, non dava pace alla povera e tormentata anima di Charlie, che doveva tamponare i guai che lo Smilzo combinava appena muoveva un passo.
Lo Smilzo, fra una gitarella e l'altra in giro per il mondo, era riuscito a finire il suo corso di studi, e in seguito Charlie lo aveva spedito all'estero a fare una specializzazione, ma anche dall'estero, costui era una fonte di grattacapi e pensieri per la mente già ingombra di responsabilità di Charlie, che in ogni caso aveva il suo bel da fare per reggere tutta l'impalcatura dello Uaisipiei e delle sue attività private. Quando Charlie era al telefono con la sua consorte, non era raro sentirlo urlare sui se e sui ma, su chi e come, quando e perché che riguardavano lo Smilzo, il quale, in patria o all'estero, ne combinava sempre una.

Di tanto in tanto lo Smilzo faceva visita al paparino presso il suo ufficio all'interno dell'headquarter, e arrivava su di una utilitaria color violetto, tutta ammaccature e sverniciature, bozzi e cigolii, la parcheggiava in bella mostra davanti alla porta blindata dello Uaisipiei e poi entrava, in tutta la sua magrezza. Era così secco che più che un ragazzo, sembrava uno scheletro che camminava, ci si aspettava che scricchiolasse e implodesse. Aveva un'aria trasognata, forse più che trasognata diciamo pure assente, di chi non sa dove è stato e non sa dove andrà, Zoe più volte si era chiesta dove quel ragazzo avesse lasciato la materia cerebrale e relativi inquilini, cioè i cari e utili neuroni.

Proprio un giorno durante il quale Zoe era di turno serale, Charlie e consorte erano saliti al ristorante “Re Sugo” per una cenetta in santa pace, insieme ad alcuni ospiti. Quella sera tutto era tranquillo, anche perchè la presenza di Charlie faceva da deterrente, quando alla porta dell'headquarter Zoe vide comparire la spettrale figura dello Smilzo. Zoe aprì e con bei modi, salutò, e lo Smilzo con la solita aria di chi cade in questo mondo per la prima volta, le disse che sarebbe salito dal potente papà a prendersi le chiavi di casa, perchè lui, le sue, non sapeva dove cavolo fossero.
Zoe lo avrebbe volentieri mandato dall'onnipotente e ubiquitario genitore, ma si accorse che lo Smilzo indossava bermuda e infradito, che Charlie a quell'ora della sera aborriva come la peste.
Allora lo Smilzo chiese a Zoe il piacere di andare al posto suo, e Zoe acconsentì, pur di far filare tutto liscio.

Salì al piano superiore e attraversò il salone del ristorante, raggiunse la veranda dove Charlie sorseggiava un rum da meditazione insieme alla consorte ed alcuni ospiti, si avvicinò guardinga, e attese che Charlie finisse di parlare, poi, con un bel sorriso, si scusò del disturbo, ma Charlie la rassicurò:”Bambina rossa, lei non disturba mai!”...... Così Zoe si fece coraggio e chiese a Charlie le chiavi per il figlio, che, di sotto, attendeva pazientemente.
Charlie sbarrò gli occhi, si congestionò, tossì, mentre la sua dolce consorte si mise le mani nei capelli e così si espresse: “Oh Signore, le ha perse un'altra volta!!!”

Nella mente di Zoe suonò l'allarme rosso, ci fu un attimo di imbarazzo generale, tanto che anche Zoe fece uno sguardo periferico, sul modello militare, tipo “Signorsì signore!”
Charlie tirò fuori le chiavi e le porse a Zoe facendole questa raccomandazione: “Bambina rossa, ecco le chiavi, Le dia a mio figlio e gli dica da parte mia che è un FESSO!!!!!”
Se fosse stata una situazione diversa, Zoe si sarebbe smascellata dalle risate, ma non era certo l'occasione adatta, quindi si dette un tono solenne, prese le chiavi, scese e le consegnò allo Smilzo, ma si guardò bene dal riferire il resto del messaggio, considerando che le faccende di famiglia di Charlie non la riguardavano.
Dal canto suo lo Smilzo uscì, chiavi in mano, e poi ritornò cambiato di tutto punto, salì di sopra e rimase in compagnia dei divini genitori. Ma la faccenda non era chiusa.







martedì 2 giugno 2015

Il male di vivere

Il male di vivere, lo chiamano così i media, questo virus dilagante che spezza le vite dei giovanissimi, lasciandoci in bocca l'amaro di una domanda: perchè? Io non conosco la risposta, ma sono capace di guardarmi attorno e quello che vedo mi piace sempre meno. Vedo che l'unico valore su cui molti adolescenti basano la propria vita è uno squallido materialismo, che affonda le proprie radici sull'apparire, sull'avere, sulla perfezione estetica, su una falsata comunicazione non verbale che si esplica solo attraverso il virtualismo tecnologico di cui nessuno o quasi, riesce più a fare a meno.

Non solo lo vedo questo materialismo, ma lo tocco con mano. Stordirsi, ubriacarsi, ostentare aggressività, aggregarsi in gang, gestire soldi senza conoscere la fatica di averli guadagnati, ottenere facilmente tutto senza il minimo sacrificio, identificarsi con icone dietro cui si muove un meccanismo che in realtà plasma menti affinchè possano desiderare, senza compiere consapevolmente una scelta. E se non si ottengono certe cose le strade sono due: o ci si procurano mercificando se stessi, compiendo piccoli reati,  usando la violenza oppure lasciando spazio alla disperazione, perchè non siamo come i canoni ci impongono di essere, perchè siamo vittime di scherno o peggio di bullismo in un mondo in cui massificazione e standardizzazione sono i dittatori della vita.


In famiglia non si parla, vorrei chiedere ai genitori di questi adolescenti se davvero conoscono i loro figli o se li conoscono solo attraverso i social network cui essi affidano le loro riflessioni, se parlano con loro o se identificano lo stare in famiglia solo come vivere sotto lo stesso tetto, ognuno preso dal proprio avatar, dalla playstation o dagli impegni di un quotidiano in cui valori e parole sono stati sepolti da tempo perchè risultano difficili da riesumare, e perchè comportano un confronto a cui non ci si vuole sottoporre perchè è difficile tenersi testa guardandosi negli occhi, criticarsi, mettersi a nudo, parlare dei propri vuoti, del disagio che si prova e soprattutto è praticamente impossibile andare contro corrente.

Già, remare in senso opposto, non solo è faticoso, ma implica combattere una battaglia da soli contro una moltitudine infinita che ti addita come diverso e che ti prende di mira. Eccoci arrivati al punto, solo se si possiedono dei valori ben radicati si può sostenere un peso di questo tipo e questi valori non si acquisiscono con la nascita, ci vengono insegnati. E chi li insegna se non la famiglia? Si insegnano dando un esempio, con il comportamento, con le parole, raccontando la vita ogni giorno, e fornendo quegli strumenti che fanno dei giovani persone in grado di giudicare, e decidere autonomamente senza sentirsi inadeguati in un mondo in cui si è "fighi" o "fighe" solo se si assomiglia a Barbie o se si possiede un iPhone, se si veste di marca, se si ha un piercing o un tatuaggio.

La vita è fatta di ben altro, è costituita di una profondità di sentimenti, sensazioni, emozioni, gioie, dolori che nulla hanno a che vedere con il materialismo che digerisce le nostre esistenze. Se si vuol cambiare il mondo, bisogna iniziare a cambiare noi stessi, e ciò a partire dal nucleo originario, la famiglia, cominciando da una domanda: perchè esiste la famiglia e a cosa serve?

sabato 18 aprile 2015

L'Incantesimo del Salice - Abracadabra

Se volte proteggere la famiglia e la casa, portate nel vostro appartamento qualche ramo di salice e allestite una sorta di altare. Ma se volete andare oltre provate questo incantesimo.

Occorrente: 2 gocce di olio di rosmarino, 2 di geranio e 2 di incenso in circa 15 ml di olio di mandorle, qualche ramo di salice per purificare, una pianta di ciclamino non selvatico, una candela bianca


Un giorno di luna crescente, bruciate gli oli in un braciere e attraversate tutta la casa per purificarla con la loro fragranza. Operate l'incantesimo nella stanza dove vi riunite tutti insieme. Disponete i rami di salice e il ciclamino (bianco o rosso) su un tavolo, e accendete una candela di color bianco candido. Mentre gli oli  continuano ad ardere, concentrate i vostri pensieri e con l'occhio della mente carpite dalla candela un fascio di luce bianca; fatelo turbinare come un tornado in tutta la stanza e intorno a ogni singolo componente della famiglia, spazzando via la negatività. Ongi mattina tornate ad avvolgere la vostra famiglia in questa candida luce protettiva.

Quindi prendete i rami di salice e intrecciate una piccola ghirlanda nella luce bianca e appendetela sopra la porta di casa. Una volta ala mese, con la luna nuova, accendete, nello stesso punto un'altra candela per ricaricare l'atmosfera positiva.

giovedì 3 gennaio 2013

IL VALORE DELLA FAMIGLIA

Sono nata perché sono stata fortemente desiderata, non sono frutto  di un incidente, come accade spesso.
Sono stata e sono amata oltre ogni cosa dai miei genitori, che fin dal primo giorno hanno creato attorno a me l'ambiente più sereno che un bambino, poi adolescente e quindi adulto possa desiderare, un ambiente sereno, caldo e accogliente, dove non mi sono mai stati negati abbracci, sorrisi, dialoghi e spiegazioni.
Ho avuto il privilegio di poter essere veramente me stessa, con i miei difetti, le mie virtù, i miei "se", i "ma", i dubbi, le crisi esistenziali, i momenti di ribellione, quelli di dolore, semplicemente perché i miei sono stati capaci e ancora lo sono, di farmi sentire bene con me stessa e mi hanno dimostrato e tutt'ora lo fanno, che per loro vado bene così come sono nella mia imperfezione.
E' stato facile imparare perché il loro modo di comportarsi è stato un insegnamento  il cui valore è andato ben oltre qualunque discorso. L'onestà assoluta, l'integrità morale, i principi etici sono diventati i cardini del mio modo di essere grazie all'esempio che ho vissuto in famiglia.
Dire sempre la verità, saper chiedere scusa (cosa che la maggior parte delle persone sembra ignorare), controllare la propria ira senza dar vita a spettacoli pietosi a cui spesso sono costretta ad assistere fuori dall'ambito familiare, hanno fatto di me quello che ora sono e a cui non posso rinunciare, altrimenti dovrei rinunciare ad essere me stessa. Essere coerente e costante con questo mio modo di esistere mi costa una fatica enorme e l'ho anche pagato a caro prezzo, con la solitudine e a volte anche con l'emarginazione.
I miei mi hanno insegnato a pensare sempre in maniera indipendente, a riflettere bene prima di agire, a non lasciarmi trascinare, a crearmi una mia propria filosofia di vita in linea con i miei principi, a non essere un pecora qualunque in mezzo ad un gregge, che va in una direzione senza chiedersi perché.
A casa mia per me ci sarà sempre posto, che ci viva oppure no, ed è splendido pensare, quando non ci sono, che comunque lì c'è qualcuno che mi aspetta e si preoccupa per me, come è altrettanto speciale sapere che, quando infilo la chiave nella toppa della porta di casa, questa si apre e qualcuno si affaccia sorridente ad accogliermi, che la mia giornata sia andata bene o male, che io sia allegra o no.
Sono stata per anni lontana da casa, per studio e per lavoro, e c'è una bella differenza dall'entrare in una casa in cui non ti attende nessuno, da una in cui  sai che qualcuno è lì ad aspettarti.
E' confortante sapere che, qualunque cosa mi accada,  ho la fortuna di avere il mio luogo sacro, la mia "casa albero" dalle radici forti, nella quale tornare e tra quelle pareti trovare conforto alle delusioni della vita, alla perdita del lavoro, al precariato imperante, agli amori perduti, e allegria e gioia e umorismo.
L'anima si solleva sapendo che oltre ai miei genitori posso contare sugli zii e i cugini, che per me sono come secondi genitori gli uni e fratelli gli altri, che erano e sono lì con la mano tesa anche quando ho attraversato i momenti peggiori, e che quella mano si è unita a alla mano dei miei per tirarmi fuori da tutti i baratri in cui sono caduta, per aiutarmi a rialzarmi quando sono inciampata, per festeggiare i miei successi e cantare inni alle mie vittorie.
Possedere tutto ciò vale più di qualunque ricchezza, non ha prezzo, è stato il dono più grande che il destino potesse farmi: avere intorno a me l'armonia magica di una famiglia dove il significato della parole amore è stato compreso appieno e ed è stato messo in pratica sopra ogni altra cosa.
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