Antonio indossa uno
spolverino blu, uno spolverino che mi ricorda quelli indossati dai
vecchi vetrai, intenti nel loro lavoro in ampie botteghe, dove le schegge di specchi e vetri colpite dal sole, si trasformavano in prismi diffondenti arcobaleni di luce colorata. Erano botteghe dove odori di colla e polvere si mischiavano in armonico profumo, proprio di quell'attività. Ma lo spolverino di Antonio non è adibito a quell'uso.
Egli lo indossa per un ben preciso scopo: andare sotto l'albero del
gelso a raccogliere le scure
more, che sugose occhieggiano dietro le larghe foglie, vestito di rami flessibili. Le more del gelso cadono nelle mani di Antonio, che le ripone sapientemente in una grande ciotola di plastica bianca; sono così mature che a volte il loro
sanguigno succo gli tinge le mani e le gocce purpuree macchiano lo spolverino blu.
Le
mani di Antonio sono grandi e forti, costellate di qualche
legnoso nodo come il tronco del gelso, ma pur nella loro ampiezza, esse sono delicate e leggere, tanto che le fragili more vi trovano morbido letto. Da sotto il gelso si sente Antonio che parla con il
merlo, che un po' indispettito si sente deufradato di tanto cibo e saltella nevoso da un ramo all'altro, mentre un gelosa
ghiandaia lancia qualche roco avvertimento perchè il suo territorio è stato invaso da un
gigante blu.
Io mi godo la scena dalla finestra, osservando i movimenti, ascoltando in silenzio i
dialoghi fra Antonio, il merlo, la ghiandaia, nella pace spirituale di un giardino di cui mai rivelerò le coordinate, dove tutto è possibile, dove si fa il pane fatto in casa e torte che odoran di forno.
Con Antonio e il suo spolverino blu si parla di
pesca, di
tartufi, delle
piantine di pomodoro, di
alberi da frutto e della
situazione internazionale. Ci si siede in giardino a guardare il
tramonto, mentre un batuffolo di pelo nero corre sull'erba con le sue zampette corte, regalando ad Antonio, al suo spolverino blu e a me, un attimo di paradiso.