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domenica 6 marzo 2016

ERO UNA BAMBINA DISAPPETENTE

Sono stata una bambina disappetente, così diceva il pediatra. Per me lo stimolo della fame non esisteva affatto, fame non ne avevo mai. A dire il vero, a chi mi aveva intorno, apparivo come un derviscio (benchè fossi paffutella, nessuno a vedermi avrebbe detto che ero una che non mangiava) in continua meditazione, capace di digiuni prolungati per giorni. A mangiare naturalmente venivo forzata, con mio grande disappunto. Ovviamente crescendo le cose sono cambiate, sono diventata una buona forchetta e una grande buongustaia, adoro la buona cucina e i piatti ben cucinati che apprezzo con tutto il mio essere. Nonostante tutto però, non sopporto di stare a lungo a tavola, mangio volentieri, con gusto, ma il tempo deve essere limitato, questo suggerisce il mio istinto.


Una riflessione la mia, che è maturata recentemente, forse perchè mi è stato fatto più volte notare e soprattutto in famiglia, che ho la tendenza a togliere, con fulminea velocità, i piatti da tavola, talvolta mentre i malcapitati familiari stanno ingoiando l'ultimo boccone. Così, mi son messa a pensare a questa sorta di mania. Perchè mi comporto così?  Ripensando ai miei trascorsi infantili, a quando per me il verbo "aver fame, essere affamati" non aveva alcun significato, mi sono riaffiorati alla mente dai vecchi cassetti della memoria, i pensieri di un tempo: mangiare uguale perdita di tempo prezioso.

Tempo tolto ai miei pensieri, ai giochi, alla lettura, alla mia voglia di stare da sola nella mia cameretta senza essere disturbata da nessuno, quindi gli orari dei pasti (oltre al fatto che la fame non si faceva mai sentire), sottraevano tempo. Ripensando a ciò, ho rivisto anche il mio modo di essere adesso, ancora legato a quegli istinti. Mangiare mi piace, ma nella mia mente continua ad essere una perdita di tempo, tempo sottratto, tempo mancante, pericolo forse? Se sono sola, per me diventa inutile persino sedermi a tavola, mangio in piedi, comodo e veloce; se sono con i miei familiari, sosto a tavola solo il tempo necessario a masticare, deglutire, complimentarmi per la bontà delle pietanze (siano esse cucinate da me o da loro) e poi via, prepararsi a sparecchiare, fare la cucina e togliere tutto di mezzo, andare in altra stanza. 

Per me è una totale assurdità che si stia a tavola una volta finito il pasto semplicemente per chiacchierare, con la tavola ancora da sparecchiare e i piatti da lavare, il mio solito atavico istinto mi dice che si deve sbarazzare tutto e poi dedicarsi alla conversazione in un luogo più consono ad essa. Mi chiedo se non vi sia una sordida sensazione di paura, il pasto come sosta, come pausa, il fermarsi chissà, in un luogo pericoloso, sotto il tiro dei cecchini, con il pericolo di un agguato, quindi, sbrigarsi e marciare per andare in un luogo sicuro. L'unico pasto che per me vale la pena godersi è la colazione, illuminante momento di delizia. Sola o in compagnia, per colazione siedo, e sosto (mai troppo), ma sosto; respiro l'inizio della giornata come fosse una sorta di nascita, un nuovo affacciarsi al mondo, giorno, metafora della vita, tutto da vivere.


domenica 20 settembre 2015

Ataviche sensazioni

Qualcosa di atavico, di antico, emerge dal mio io più profondo, che mi impedisce di essere espansiva con le persone che amo, che limita i miei gesti d'affetto. Fin dalla più tenera età, ho sempre cercato di sottrarmi ai profumati baci di mamma, agli abbracci, con un istintivo gesto delle mani, atto ad impedire di entrare in contatto fisico con tutti, familiari e non. Era più forte di me, una inconscia maniera di difendermi forse, non so da cosa o da chi, un gesto guidato da un istinto primordiale, la cui presa di coscienza mi faceva star male: perchè ero così distante nei confronti delle persone che amavo e che cercavano di farmi sentire tutto il loro affetto?


Non me ne sono mai liberata, nemmeno quando mi sono innamorata; non sopportavo che mi si prendesse per mano, nè che mi si cingessero le spalle, come del resto tutto l'universo mondo dei fidanzati faceva. No, non con me. Me ne sono fatta persino una colpa, dicendo a me stessa che non ero capace di amare, se questo era il mio modo di comportarmi. Ma non era così, ho amato, così tanto da farmi male, ma quei gesti non erano per me.

Per molto tempo mi sono imposta di non pensare a questo mio modo di essere, a lasciare scivolar via quella sensazione che stringeva il mio stomaco, che sorda rumoreggiava nella mia testa: ero così, non potevo farci nulla, prendere o lasciare. Per anni ho lasciato che tutto scorresse così, accantonando quell'istinto, reprimendo la sofferenza che mi procurava, perchè avrei voluto mostrare con una gestualità che non mi è mai appartenuta, la forza dei sentimenti e delle emozioni che come acque tumultuose straripavano da tutto il mio essere.

Sono una contraddizione: per quanto solare, sorridente, di compagnia e allegra da un lato, dall'altro risulto introversa e complessa persino a me stessa. Di me, di quello che vivo e sento non parlo quasi mai, a meno che non vi sia costretta da cause di forza maggiore.
Tutto questo contrasta con la mia capacità di saper stare e trattare con le persone, e della mia spiccata propensione ai rapporti interpersonali.

Solo in questi giorni questi pensieri si sono riaffacciati prepotenti nella mia testa, in una carrellata infinita di ricordi, che continuano ad urlarmi gesti negati seguiti da dolorosi sensi di colpa che mi fanno apparire gelida e fredda quale non sono. E' come essere una statua di ghiaccio con un fuoco che  arde all'interno. Il ritorno prepotente di questo pensiero mi ha costretta a riflettere nuovamente su quelle sensazioni, gettandomi nello sconforto. Ma non ho potuto fare altrimenti, a volte ritornano, i ricordi, e bisogna conviverci. E' come cimentarsi con un puzzle i cui pezzi sono tutti  mescolati alla rinfusa e non si riesce a trovare quello giusto per iniziare. Guardi la figura sulla scatola, chiara, addirittura semplice, poi guardi i pezzi e non trovi il bandolo della matassa.

Guardi, cerchi, e non trovi, riguardi, ricerchi e nulla, fino a che non lasci perdere per un po', e poi all'improvviso si muove qualcosa. Qualcosa di perduto, in un tempo che non riaffiora alla mia mente, ma che sembra avermi marchiata a fuoco e di cui rivivo solo gli istinti e le sensazioni che condizionano il mio comportamento. Ho ripercorso la gestualità a cui mi sono sempre sottratta, chiedendo il perchè del rifiuto di un abbraccio, di un bacio affettuoso, di un braccio sulle mie spalle, di un incrocio di mani: è la sensazione di un'appartenenza impropria, quella della schiavitù.


venerdì 24 luglio 2015

Gli oli essenziali e le simbologie planetarie, Marte

 Marte-Ares è l'antico dio della guerra, espressione della virilità guerriera, aggressivo e sanguinario, audace e impulsivo, dove l'istinto precede ogni riflessione. Marte è anche un dio impulsivo e vitale nella sessualità: si  innamora di Afrodite, sposa del dio zoppo Efesto e la seduce, seguendo la spinta dell'istinto. E' dinamico e aggressivo, il pianeta di fuoco e ferro, simbolo dell'energia vitale e dell'azione finalizzata, dello sforzo che sostiene l'atto volitivo.

Fisiologicamente rappresenta le difese del corpo, sia intese come barriere meccaniche e biochimiche all'attacco dei vari microrganismi, che le reazioni di infiammazione e di febbre che bruciano le tossine del corpo e lo purificano; marziana è inoltre l'energia muscolare, l'aggressività, la pulsione sessuale con caratteristiche tipicamente maschili, il sangue. Partecipa alla formazione del sangue assorbendo il ferro dagli alimenti (metallo che governa) e fissandolo nella formazione dell'emoglobina dei globuli rossi. 

Paracelso, nel 1500, senza poter conoscere la composizione biochimica del sangue  e dell'emoglobina scriveva: "Se una donna manca dell'elemento la cui essenza si irraggia da Marte e di conseguenza soffre di poevertà di sangue e di mancanza di forza nervosa (anemia), possiamo darle del ferro perchè gli elementi astrali del ferro corrispondono agli elementi astrali contenuti in Marte e li rimarranno come un magnete attrae il ferro. Ma dovremo scegliere una pianta  che contenga ferro in uno stato eterealizziato, che è preferibile a quello del ferro metallico". 

E oggi sappiamo che il ferro organico è molto più assimilabile dall'organismo umano di quello metallico, inorganico. Il Sole e Marte danno forza di vita, sangue, coraggio e rinforzano la mente, Marte è accelerante, attivo, maschile, aggressivo, combustivo, eccitante, impulsivo, caldo, rosso, risoluto, sensuale, turbolento, vulcanico. Le essenze governate da Marte saranno  ottimi tonificanti e stimolanti, stimoleranno il sistema nervoso, le difese dell'organismo, saranno afrodisiache e riscaldanti.


sabato 4 luglio 2015

Gli oli essenziali, l'olfatto

L'olfatto è l'attività sensoriale sollecitata dagli oli essenziali. la sostanza aromatica che si effonde nell'ambiente con un processo di espansione viene colta dall'uomo con un gesto di interiorizzazione e di raccoglimento, cosicchè le sottili qualità della sostanza si trasmettono a colui che le percepisce. La percezione olfattiva è qualcosa di estremamente sottile, che si collega con gli stati psichici

L'azione dell'olio essenziale può in questo caso essere intesa come una vibrazione energetica, che agisce al di là del piano fisico. L'aroma terapia, sollecitando il senso del l'olfatto, così antico e sottile, può essere un utile tentativo per superare il materialismo e per collegarsi con il piano spirituale. Affinchè gli odori vengano percepiti, è necessario che l'aria inalata, contenente le molecole volatili, raggiunga la parte superiore delle cavità nasali, dove si trovano le fibre nervose dei neuroni olfattivi . Queste cellule nervose, una volta sollecitate dalle molecole odorose, trasformano l'energia chimica in impulsi elettrici che vanno a stimolare i centri olfattivi dei bulbi. Da qui il messaggio olfattivo viaggia verso le altre regioni del cervello, dove vengono elaborati i dati acquisiti e hanno sede le reazioni emotive. 

A differenza degli altri sensi le stimolazioni olfattive sono le sole a passare direttamente nella corteccia cerebrale, senza subire il filtro di un centro recettore, chiamato talamo. 
Questo spiega come mai un odore o un profumo possa evocare istantaneamente ricordi estremamente vividi di esperienze anche molto lontane: più che un ricordare, in questi casi si tratta quasi di rivivere l'esperienza antica, che si riaffaccia prepotentemente, annullando le distanze spazio temporali. 
Il ricordo scatenato da un odore è quindi molto più intenso di quello evocato da un'immagine o da un suono: la percezione di un odore contiene in sè tutta l'energia di una realtà esistenziale.

Per rendere l'odorato più acuto è utile annusare il basilico, sotto forma di pianta, se possibile, o come essenza. Nella scala evolutiva, l'apparato olfattivo rappresenta l'organo sensoriale più antico. Nell'uomo esiste ancora un rapporto stretto tra stimolazione olfattiva e sfera sessuale: un profumo o l'odore emesso da un corpo possono indurre attrazione o repulsione.  Aromi e profumi sono entrati nella storia dell'uomo, che ne ha sfruttato la magia persuasiva ed evocativa, spaziando dal sacro al profano: dagli incensieri ardenti davanti agli altari degli dei, alla ricerca delle composizioni aromatiche per aumentare il fascino e l'attrattiva. L'olfatto è quindi legato contemporaneamente alla carne e all'anima; è vicino all'istinto e all'inconscio, all'interno di una dimensione sottile dell'esistenza; così come ha il potere di rievocare il passato, allo stesso modo può risvegliare energie creative profonde e riportare il contatto con le forze che animano l'immaginario; seguendo questa scia odorosa, i profumi delle essenze così carichi di una loro potenza intrinseca e di valenze simboliche ed energetiche, possono aiutare l'uomo di tutti i tempi a ritrovare autenticamente se stesso e ad aprirsi a nuove possiblità espressive. 

Plutarco descriveva così gli effetti del kyphi, un celebre profumo egizio:
Si spande un odore soave e salubre che cambia lo stato dell'aria. Quest'odore si insinua nei corpi attraverso il respiro, li distende in modo dolce e lento, li invita al sonno e diffonde attorno a sè un delizioso benessere. Le preoccupazioni quotidiane, che sono penose catene perdono il loro dolore e la loro intensità; ci si intorpidisce e rilassa senza ricorrere all'ubriacatura. Agendo anche sull'immaginazione, facoltà così potente nel sogno, queste esalazioni la rendono in qualche modo netta come lo specchio più terso. L'effetto ottenuto non è meno meraviglioso di quello del suono della lira di cui godevano i pitagorici prima di addormentarsi.


sabato 22 marzo 2014

L'INCUBO DELLA SCUOLA MATERNA

A scuola sono sempre andata volentieri, alle elementari, alle medie, al liceo e infine all'università. Mai avuto problemi di socializzazione con i miei compagni, mi sono inserita con facilità in tutti i contesti sociali. 
Ma non potrò dimentichare mai il periodo della scuola materna, antecedente l'inizio della scuola dell'obbligo. Avevo all'incirca quattro anni e come tutti i bambini di quell'età, fui iscritta. La scuola non distava molto da casa, anzi, al tempo la sua sede, era tranquillamente visibile dal balcone di casa mia. In quella scuola però, io proprio non volevo andare, non mi piaceva affatto, il solo pensiero di dovervi passare delle ore mi ripugnava. Non ero una bambinetta capricciosa, non mi lamentavo e non piangevo mai, mi limitavo a mostrare il mio disagio con l'epressione seria del mio volto. Ciò naturalmente non portò a cambiamento alcuno, e ogni santo giorno venivo imbarcata sul giallo scuolabus che passava davanti a casa.  I miei coetanei vociavano e si muovevano, comportamento questo che mi infastidiva notevolmente: le loro assordanti voci e tutti quei movimenti incosulti mi davano ai nervi (io, naturalmente, restavo immobile al mio posto per tutta la durata del tragitto). 
L'arrivo alla scuola era altrettanto traumatico: tutti che si precipitavano fuori dallo scuolabus spinteggiandosi a vicenda, era al di là della mia comprensione. Per me era inconcepibile un tale caos di teste, gambe e braccia. Lasciavo che uscissero tutti, e in ultimo, mi avviavo cauta fuori, dove le maestre ci attendevano all'ingresso. I nostri cappottini venivano sistemati in fila sull'attaccapanni, quindi entravamo nelle classi. Mi guardavo intorno e osservavo tutti quei bambini, genere al quale la mia mente sentiva di non appartenere,  presi a rovesciare sui banchi matite e colori, a giocare con il pongo o il das, a spinteggiarsi, mentre io mi sentivo sempre più estranea a quel contesto. Non riuscivo a capire come potessero  interessare loro, quelle inutili attività ricreative: il mio mondo era quello degli adulti, calmo, educato, intellettivamente stimolante; nella mia mente un unico pensiero: tornare a casa, stare in silenzio, sfogliare i miei libri, giocare per mio conto, e conversare con i grandi. Persino il linguaggio di quei marmocchi spesso mi era totalmente incomprensibile, non sapevano usare le parole nè tantomeno pronunciarle bene, ma come cavolo parlavano (se parlavano)?
Il momento del pranzo era l'apoteosi della disperazione: odiavo gli odori di quella cucina e il refettorio mi dava la nausea, mentre gli altri non se ne curavano. Ci facevano sedere tutti accanto  e poi ci portavano i piatti con le pietanze: avevo il senso del vomito, e di solito non toccavo nulla, il cibo rimaneva nel mio piatto, mentre  i miei occhi assistevano al bestiale spettacolo di tutti quei pupi che affondavano le loro mani nei piatti, portandosi il cibo alla bocca con le mani e spargendo il resto su se stessi o sugli altri, ignorando le posate. In quei momenti desideravo solo scomparire, se mi avessero sparato ne sarei stata felice. Ma perchè dovevo stare lì? A che scopo? 
Alla fine le assistenti della mensa ci portavano in classe, dove le maestre avevano preparato delle piccole sedie a sdraio sulle quali ci facevano sedere e ci incitavano a dormire. Ovviamente l'unica ad avere gli occhi spalancati come fanali ero solo io, il resto della classe ronfava beatamente. Io non potevo chiudere occhio, ma si poteva star tanto rilassati e tranquilli? Il mio istinto di conservazione era come se mi dicesse che dovevo tenere tutto sotto controllo; mi sembrava strano che gli altri si assopissero, io non dormivo mai, nemmeno a casa, ero capace di stare sveglia anche per giorni. 
L'unica consolazione che avevo era che dopo quell'inutile riposino, si tornava finalmente a casa, dove avrei ritrovato il silenzio, la tranquillità, la mia amata famiglia e la mia solitudine meditativa. Tutti quei bambini erano come estranei per me, erano semplicemente altri,  guidati dai loro istinti, privi di logica e di ragionamento, non erano la mia realtà e non erano il mio mondo. Fortuna che sono cominciate le scuole elementari.


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